La domanda è solo apparentemente banale. Una delle storie d’amore più famose di tutti i temi sarebbe in realtà una storiaccia di sesso, adulterio e femminicidio, con protagonisti due vip dell’epoca, ben lontana dunque dall’ideale romantico alla Romeo e Giulietta, se non fosse stata immortalata dalle terzini sublime di Dante.

Francesca, figlia del signore di Ravenna, andò sposa tra il 1275 e il 1282 a Gianni Ciotto Malatesta, signore di Rimini. Dal matrimonio nasce una figlia. Ma Francesca si innamora del cognato Paolo, anche lui sposato e con due figli. Gian Ciotto li scopre e li uccide (siamo fra il 1283 e il 1286). Altro le cronache del tempo non dicono ed è il genio poetico di Dante a fare di Francesca la prima grande protagonista della letteratura italiana. Dante incontra i due cognati fra i lussuriosi del secondo cerchio (i cerchi sono nove e il secondo punisce il peccato meno grave, in base all’etica aristotelica e tomistica). La pena è infatti terribile, ma meno tremenda di quelle che la fantasia dantesca immagina per gli altri peccatori: per tutta l’eternità le anime dei lussuriosi saranno in preda ad un incessante vento, che li sbatte continuamente come pagliuzze, in un vortice circolare.

Anche qui la regola del contrapasso è evidente: come in vita sono stati travolti dal vento della passione, per tutta l’eternità saranno preda della bufera infernal. Ma nonostante la violenza del turbine, Paolo e Francesca riescono a procedere insieme, come due colombi che neppure la morte e la condanna divina è riuscita a separare.

Al richiamo di Dante, però, per volere di Dio, le anime dei due amanti si fermano, per dialogare con lui. Sarà Francesca a parlare, usando però molto spesso il “noi”. Paolo, per tutta la durata del colloquio, rimarrà accanto a lei muto e in lacrime.

Inferno, (V, vv.88- 108)

«O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ‘l vento, come fa, ci tace.

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.

Francesca si rivolge a Dante in modo cortese e premuroso (animal , nell’italiano dell’epoca, significa semplicemente essere vivente). Addirittura, da vera signora, si preoccupa per il benessere del suo temporaneo ospite e pregherebbe Dio perché Dante ottenga la pace, se non fosse, come dannata, invisa all’Onnipotente. La prima cosa che emerge dalle sue parole è l’orrore del duplice omicidio: loro si trovano infatti tra i lussuriosi morti di morte violenta. E il mondo è stato tinto di rosso scuro dal loro sangue. Francesca sa che Dante ha pietà di lei e di Paolo, per questo racconta volentieri la loro storia. Comincia con un breve cenno biografico, richiamando con una perifrasi la città natale, Ravenna , che allora era vicinissima alla foce del Po . Non si può non notare che in pochi versi torna due volte la parole “pace”, quella pace che le anime in balia del vento maligno non avranno mai.

Poi le terzine più famose della Divina Commedia. La prima dedicata a Paolo. E’ lui che si innamora della sua bella persona: l’amore passa per gli occhi, non è, all’inizio, un amore spirituale, come diceva del resto Andrea Cappellano, vissuto in Francia a metà del XII secolo, autore del trattato De amore, che è il fondamento teorico di tutta la letteratura cortese e stilnovistica. Ed è proprio il modo in cui è stata privata di quel bellissimo corpo che offende Francesca anche dopo la morte.

Protagonista della seconda terzina è la stessa Francesca. Anche qui, quasi a giustificarsi, ripete le parole del De amore: chiunque sia amato non può non ricambiare l’amore (anche se non tutti saranno, penso, d’accordo). Anche lei è presa dal piacer, cioè dalla piacevolezza dell’aspetto di Paolo, ma la sua non è una colpa: è la legge ineluttabile dell’Amore che fa nascere in lei questa passione . (Si può ricordare, a sua ulteriore discolpa che Ciotto, il nome del legittimo consorte, significava sciancato e che non se l’era certo scelto lei come marito). E quell’amore non l’ha più abbandonata.

La storia di Paolo e Francesca diviene così , nei versi di Dante, l’esempio più illustre, di quelle idee che si erano diffuse nelle corti europee a partire dal XII secolo, per le quali l’amore è tale solo se è frutto della libertà dell’individuo, anche contro le convenzioni sociali che imponevano, soprattutto ai componenti delle classi dominanti, di sottostare, anche nel contrarre il matrimonio, agli interessi economici e dinastici della famiglia.

Sarebbe lungo spiegare perché nasce proprio in questo periodo, ma quella di Cappellano (che Dante in parte fa propria) è una concezione eversiva. Qualcuno afferma che è il fondamento dell’individualismo del mondo occidentale, per il quale la libertà e la volontà del singolo prevalgono sugli interessi della famiglia a cui appartiene. Ma è una concezione pericolosa. Nell’ultima terzina del discorso di Francesca è proprio questa libertà amorosa a condurli insieme, uniti per sempre, alla morte. (Qui una, alla latina, significa la medesima). E la morte più atroce è quella spirituale, la pena eterna dell’Inferno.

Le ultime parole sono per il marito, ancora in vita, ma atteso dalla Caina, luogo in cui sono puniti, in modo ancora più tremendo, i traditori dei parenti.