Che lo shopping sia fonte di piacere è un dato assodato. L’acquisto di beni di consumo come esperienza sensuale, quasi mistica, che non ha nulla a che fare con necessità o esigenze reali: sappiamo tutti che è questa la vera essenza del consumismo, su cui si basa l’economia di gran parte del mondo. Ma quando è cominciato questo processo che ha prodotto, per citare solo alcuni esempi, i centri commerciali come luogo di svago,  in cui le famiglie vanno a trascorrere il loro tempo libero e la continua, ossessiva,  inesorabile vetrina  di merci a cui si espone chiunque navighi in Internet?

La risposta si può trovare nei saggi di storia dell’economia oppure, forse in modo più piacevole, nel romanzo di Zola, pubblicato quasi centocinquanta anni fa , nel 1883, Il paradiso delle signore, o meglio Au bonheur des dames, titolo che richiama, con la parola bonheur, la felicità che le signore (ma credo anche molti signori)  provano nell’acquistare.
Una lettura che stupisce per l’avveniristica descrizione di tutti i trucchi del marketing più moderno, già tutto intuito e inventato da un genio del commercio nel cuore della Belle Epoque.

Il romanzo è l’undicesimo del ciclo dei Rougon-Macquart, (l’unico a lieto fine)  con il quale Zola rappresenta vari ambienti della società francese a lui contemporanea, attraverso le vicende dei membri di  questa famiglia (anche se i legami tra i protagonisti dei romanzi sono in realtà molto labili).  Ed è l’ennesima riprova di quanto il  romanzo ( quando è frutto di una scrupolosa documentazione e del genio di un grande scrittore) sia in grado di raccontare la Storia . Questo, poi, è un romanzo particolarissimo: a catturare l’attenzione del lettore non è la vicenda  in verità non molto originale,  della giovane orfana Denise Baudu, povera , determinata, virtuosa che, dalla provincia francese si trasferisce a Parigi per dare un futuro a se stessa e ai suoi fratelli, ma il suo luogo di lavoro, il grande magazzino  Au bonheur des dames.

Nella seconda metà dell’Ottocento i grandi magazzini simili a città, invadono il centro di Parigi, occupando interi isolati,  decretando altresì  la rovina dei piccoli commercianti.  Il confronto è impietoso: <A destra e a sinistra le pezze di tessuto formavano scure colonne che facevano sembrare più lontano quello sfondo di tabernacolo. E in quella cappella dedicata al culto delle grazie femminili si trovavano appunto le confezioni per signora: al centro, un esclusivo mantello di velluto con bordi di volpe argentata; da una parte, una rotonda di seta foderata di petit-gris; dall’altra, un cappotto di panno decorato con piume di gallo; infine cappe da sera bianche, in cashmere o matelassé, guarnite di cigno o di ciniglia>.
Nella stessa strada, pochi passi più avanti  <due vetrine profonde, nere e polverose, dove si distinguevano a malapena alcune pezze di stoffa ammucchiate.La porta spalancata sembrava affacciarsi sulle umide tenebre di una cantina>.

Anche la logica che stabilisce il prezzo della merce è completamente sovvertita: <Tutto ruotava intorno a quell’idea, dal continuo investimento del capitale alla logica dell’accumulo delle merci, dalla vendita a buon mercato che attira al cartellino con il prezzo che rassicura. La donna era l’oggetto della contesa tra i grandi magazzini, la preda che attiravano nell’eterna trappola delle occasioni dopo averla stordita davanti alle vetrine. Avevano risvegliato in lei nuovi desideri con la forza di una tentazione immensa a cui fatalmente soccombeva, prima allettata dagli acquisti da brava massaia, poi contagiata dalla civetteria, infine divorata. Moltiplicando le vendite, democratizzando il lusso, diventavano un terribile incitamento alle spese, devastavano i bilanci familiari, alimentavano la follia sempre più costosa della moda>.

Non è difficile rintracciare in queste parole strategie di marketing a noi ben familiari dal sottocosto, al black Friday . Le clienti sono sollecitate da una pubblicità massiccia < Mouret (il propietario del grande magazzino)  arrivava a spendere fino a trecentomila franchi l’anno in cataloghi, annunci e manifesti. Per il lancio delle novità estive aveva messo in circolazione duecentomila cataloghi di cui cinquantamila all’estero, tradotti in tutte le lingue, arricchiti ora di illustrazioni e perfino di campioni incollati sulle pagine. Era una moltiplicazione di vetrine: il Bonheur des Dames saltava agli occhi del mondo intero, invadeva i muri, i giornali e addirittura i sipari dei teatri>.

Il risultato è che le clienti  attendono in preda ad una gioiosa ansia , in fila, l’apertura del negozio con le novità di  stagione < nell’eccitazione che serpeggiava sul marciapiede, le stoffe si animavano: i merletti, percorsi da un brivido, cadevano a pioggia celando le profondità del negozio in un velo di seducente mistero; le stesse pezze di panno, pesanti e quadrangolari, esalavano un alito di tentazione, mentre i cappotti, più impettiti, infondevano vita ai manichini e l’ampio mantello di velluto, caldo e avvolgente, sembrava prendere forma su un corpo in carne e ossa, con i palpiti del seno>.

La merce si anima, seduce, conquista. Ma il geniale Mouret  si spinge oltre la scenografica esposizione delle merci. Il grande magazzino deve essere un luogo seducente, accogliente, più gradevole della propria casa: < aveva aperto un buffet, dove si offrivano gratuitamente sciroppi e biscotti, e un salone di lettura, una galleria  monumentale carica di un lusso eccessivo in cui arrischiava perfino delle esposizioni di quadri. (Dove le signore potevano anche parcheggiare i mariti) .  Ma l’idea più ingegnosa che aveva escogitato per le donne senza civetteria era quella di conquistare le mamme per mezzo dei figli; metteva a frutto ogni risorsa, speculava su tutti i sentimenti, creava reparti per bambini e bambine, fermava le madri che passavano regalando ai marmocchi figurine e palloncini>.

E poi l’invenzione magistrale della disposizione delle merci. A poche ore dalla presentazione di una nuova a collezione Mouret decide, facendo disperare i suoi dipendenti, di rivoluzionare completamente i reparti del grande edificio. <Sentite, Bourdoncle, vi dico subito cosa ci guadagneremo… Primo, questo continuo viavai disperde le clienti un po’ dappertutto, le moltiplica e gli fa perdere la testa; secondo, dato che bisogna accompagnarle da un capo all’altro dei locali, per esempio se vogliono la fodera dopo che hanno comprato la stoffa, a forza di girare avanti e indietro il negozio gli sembra tre volte più grande di quello che è; terzo, sono costrette ad attraversare i reparti dove non avrebbero mai messo piede, incontrano nuove tentazioni e non sanno resistere; quarto…». Credo sia impossibile, per il lettore moderno, abituato agli estenuanti labirinti dell’Ikea, non identificarsi con le povere signore costrette a vagare per il magazzino alla ricerca di un prodotto che non si riesce a trovare e contemporaneamente sottoposte a tentazioni irresistibili.

Insomma, un romanzo dell’ Ottocento che descrive una realtà di un’attualità sconcertante, che non riguarda certamente soltanto le donne. Ma all’epoca il grande magazzino ha, per le donne, un’ulteriore attrattiva . Come scrive nella interessantissima introduzione  Pierluigi Pellini < È vero che, storicamente, i grandi magazzini rappresentano nel secondo Ottocento per le donne (quantomeno,per quelle della borghesia agiata) uno spazio pubblico praticabile: il cui statuto ambivalente, fra casa e strada, ne fa un luogo di libertà, di parziale emancipazione dalla tutela maschile. > Esclusa dai luoghi della formazione, del lavoro, della politica la donna poteva frequentare, non accompagnata, solo la chiesa, anch’essa un luogo sottoposto all’autorità maschile. < Nel tempio del consumismo, e sia pure sotto l’occhio sospettoso degli ispettori incaricati della sorveglianza, conquista invece un’indipendenza inedita (perfino economica: può decidere come spendere il denaro che ha in tasca>.

Come osserva ancora Pellini il romanzo, paradossalmente,  non parla di moda, non descrive toilettes. La merce esposta è oggetto del desiderio in sé, indipendentemente dall’uso che se ne può fare, e il grande magazzino è il tempio del nuovo culto consumistico, che sostituisce nel cuore di molti quello della religione tradizionale. E, come ogni culto anche quello della merce si basa sul fascino della scenografia, sulla teatralizzazione, sullo stupore. Quasi alla fine del libro, la Merce si manifesta come una sensuale e fascinosa  divinità  ed il lettore affascinato assiste alla sua epifania.

Per inaugurare un nuovo ampliamento del magazzino (che diviene, almeno nella pubblicità, il più vasto del mondo) Mouret sceglie lo splendore mistico ed accecante del  bianco: <…. Poi le lunghe gallerie si perdevano in un biancore accecante, uno scenario boreale, un paesaggio innevato con una successione infinita di steppe tappezzate di ermellino e alti ghiacciai scintillanti al sole. ….  Non c’era altro che bianco, tutti gli articoli bianchi di ogni reparto, un’orgia di bianco, un astro bianco di luce fissa che per un momento lasciava abbagliati, senza che si potessero distinguere i dettagli in quel diffuso biancore. Poi gli occhi si abituavano….  sciami di farfalle bianche sospese in un volo immobile; trine e merletti svolazzavano dappertutto, fluttuavano come fili della Vergine nel sole estivo, riempivano l’aria di aliti bianchi. E la meraviglia, l’altare di quella religione del bianco, si trovava sopra il reparto sete, nel grande salone, ed era un baldacchino di tende bianche che cadevano dal soffitto a vetri. Mussole, garze e guipures artistiche scendevano giù a fiotti leggeri mentre i preziosi tulle ricamati e le sete orientali laminate d’argento facevano da sfondo al gigantesco addobbo che aveva insieme del tabernacolo e dell’alcova. Pareva un enorme letto verginale in attesa, come nelle leggende, della principessa bianca che un giorno sarebbe arrivata, regina onnipotente, con il velo bianco da sposa.”

Come si può affermare  che si tratti, in fondo, solo  di lenzuola, calzini, guanti, scialli, trine e merletti?