E, simmetricamente, può un morto soggiornare sulla terra? Le domande hanno senso solo se si considera l’essere umano formato da un corpo e da un’anima che possono esistere separatamente. E così può accadere che il corpo sia sulla terra e l’anima all’Inferno. Naturalmente è una condizione estrema, inventata dalla potentissima fantasia dantesca, per chi si è macchiato di un peccato talmente ripugnante da non consentire che, neanche per un attimo dopo averlo commesso, il suo arrivo nell’ Inferno sia posticipato. Il protagonista di questi versi è frate Alberigo, ben conosciuto ai tempi di Dante per la sua malvagità.

(Inferno, canto XXXIII,   vv. 109-114)

E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli
tanto che data v’è l’ultima posta,

levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’ïo sfoghi ‘l duol che ‘l cor m’impregna,
un poco, pria che ‘l pianto si raggeli».

Dante lo incontra mentre è ormai giunto, assieme a Virgilio, al centro dell’Inferno, e sta camminando sul lago gelato formato dal fiume Cocito, dove sono immerse le anime dei traditori, ormai ridotte quasi ad uno stato minerale.  Dopo il drammatico dialogo con il conte Ugolino , viene bruscamente interpellato da un’anima che si trova in una condizione ancora peggiore, perché il ghiaccio le ricopre gli occhi, impedendole anche di piangere . Il dannato scambia i due poeti per anime dannate, condannate per un peccato talmente grave da destinarle all’ ultima posta, cioè la parte del Cocito più estrema e più vicina a Lucifero  e chiede a Dante di toglierli il ghiaccio dagli occhi. Sarà un sollievo solo temporaneo, perché in poco tempo il pianto tornerà a formare il duro velo che li opprime e che diventa sempre più  doloroso a mano a mano che le lacrime sgorgano. Esempio sublime del sadismo dantesco!

(Inferno, canto XXXIII,   vv. 115-123)

Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».

Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».

«Oh», diss’ io lui, «or se’ tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come ‘l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.

E perché tu più volentier mi rade
le ‘nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade

come fec’ ïo, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto.

Il disprezzo di Dante per questi peccatori è tale che non si preoccupa di dirgli la verità, ma pone una condizione per aiutarlo (Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna). Il dannato deve dirgli chi è, poi, se Dante non gli toglierà la maschera di ghiaccio dal volto, sia condannato ad andare fino in fondo al Cocito gelato . (E’ un’espressione ottativa che dovrebbe garantire l’intenzione di chi parla, corrispondente più o meno al nostro mi venga un colpo se…). E il dannato ci casca e rivela il su nome: è Albergo dei Manfredi da Faenza, frate gaudente (una confraternita di laici), noto per il suo malvagio orto. Infatti aveva invitato a cena alcuni parenti, poi, per ragione di interessi, li aveva uccisi al termine del banchetto, quando in tavola venne servita la frutta.

Alberigo si esprime con un linguaggio sarcastico: riprendo dattero per figo, significa che la pena è ancora più grave della colpa (il dattero è più pregiato del fico, insomma il contrario del nostro pan per focaccia).

Dante lo conosce bene ( la sua missione del resto prevede che incontri  personaggi famosi, noti ai suoi contemporanei, la cui condizione dopo la morte possa essere di esempio) e  sa che frate Alberigo, nell’aprile del 1300, è ancora vivo. Com’è possibile? Il dannato, sperando che  aggiungere  qualche informazione  al suo racconto faccia sì che Dante sia ancora più disposto ad aiutarlo, continua a parlare. La zona in cui si trova, la Tolomea ( il nome deriva da un personaggio biblico anch’esso uccisore di parenti invitati a cena), ha questo vantaggio (prosegue il sarcasmo):  appena l’anima tradisce in modo così grave (è il tradimento dell’ospite, sacro per tutte le popolazioni civili) cade lì ancor prima che Atropo (la parca della tradizione classica)  le dia la spinta che la fa uscire dal corpo. Un diavolo animerà da quel momento il corpo del dannato fino al completamento del tempo che gli è destinato.

La fantasia dantesca crea così questi zombie senz’anima, privi di quei valori che rendono umano l’uomo, ma che, come si evince dai versi che seguono, nelle città italiane della sua epoca rivestono anche importanti incarichi pubblici. Il disprezzo del poeta nei loro confronti è indescrivibile e per rappresentarlo in modo eloquente, quando alla fine del canto Alberigo gli chiede di toglierli finalmente il ghiaccio dagli occhi, Dante non lo farà.

(Inferno, canto XXXIII,   vv. 149-150)

(…)”aprimi gli occhi” e io non gliel’apersi:
e cortesia fu lui esser villano