Se il fascino di un personaggio letterario è dovuto alla sua profondità, che consiste nella possibilità di essere letto in tanti modi a seconda delle epoche, della psicologia e delle convinzioni dei lettori, certamente Ulisse non ha rivali.
La nostra epoca lo esalta come il paladino dell’intelligenza umana, di quella bramosia di sapere che rende l’uomo veramente tale e che gli ha consentito di uscire dallo stato primitivo e lo ha condotto ad esplorare l’infinitamente piccolo e l’immensità dello spazio. Ma Dante come la pensava?

Va premesso che il sommo poeta non conosceva i poemi omerici se non nelle citazioni che nel Medioevo si potevano leggere nella letteratura latina (soprattutto Virgilio e Ovidio). Ma tanto gli basta per associare al personaggio di Ulisse i due aspetti che ritroviamo nella Commedia: l’astuzia e la brama di conoscenza.
L’astuzia è il peccato per cui Ulisse è condannato all’Inferno (non meravigliamoci che un personaggio di invenzione possa essere considerato storico, nella cultura medioevale la distinzione quasi non esiste.

Dante e Virgilio lo incontrano nel XXVI canto dell’Inferno, nell’ottavo cerchio, racchiuso in una lingua di fuoco, in realtà una doppia lingua, perché ospita anche il suo amico Diomede, compagno di tanti inganni. Dante sta attraversando un ponte di pietra che solca la bolgia, il fossato dei fraudolenti, coloro che hanno usato la loro intelligenza per ingannare gli altri. Appena intuisce chi si cela nella fiamma rischia di cadere giù dal ponte: tale è il desiderio di parlare con lui. In realtà sarà Virgilio a dialogare con l’eroe omerico, che accetta il colloquio, nonostante il tipico orgoglio dei greci, forse perché riconosce le sue qualità di poeta epico. In realtà è una sola domanda quella posta da Virgilio: dove è andato a morire?  E’ una domanda che offre molti problemi di interpretazione: non c’è traccia nella letteratura latina che Dante conosceva, né in altre fonti medievali a noi note, di questo ultimo viaggio di Ulisse. E Dante non inventa le storie dei suoi personaggi …  Ma non è questo il luogo per approfondire la questione.

Ulisse inizia il suo racconto:

(Inferno, canto XXVI, vv. 84-102)

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;

 indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

La parte più grande della fiamma bifida comincia faticosamente a parlare, come se si trasformasse in una lingua. Dopo essere sfuggito alla maga Circe che lo aveva trattenuto vicino a Gaeta (luogo che in realtà è stato chiamato così da Enea) arriva finalmente a casa. Ma l’ affetto per la moglie, che lo aveva aspettato, e che aveva diritto di godere, dopo vent’anni di lontananza,  dell’amore di suo marito, il tenero sentimento per il figlio, cresciuto lontano dal padre, il rispetto per il vecchio padre  non bastano a estinguere in lui l’ardore di conoscere il mondo e gli uomini, i loro vizi e le loro qualità.  Quel ma misi me è quasi un atto di violenza su se stesso, compiuto per non rinnegare la sua più vera essenza. E così Ulisse riparte con i pochi uomini che gli sono rimasti, per continuare l’esplorazione che aveva iniziato dieci anni prima .

(Inferno, canto XXVI, vv. 102- 111)

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’ Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.

Il viaggio procede speditamente verso Ovest, fino ad arrivare in vista dello stretto di Gibilterra (foce stretta), che, secondo il mito, Ercole stesso aveva segnalato come un limite invalicabile dall’uomo. In realtà sappiamo che i greci navigavano abitualmente nell’ Atlantico. Si pensa che il divieto di varcare le colonne d’Ercole risalga all’occupazione arabo-islamica della Spagna. Ma qui l’attendibilità storica non è rilevante. Lo è invece il senso che le colonne d’ Ercole assumono: sono il limite alla ragione umana  voluto da Dio. E’ Adamo il primo a violarlo (anche se, non dimentichiamolo, la colpa è di Eva), assaggiando il frutto proibito che costerà all’’intero genere umano l’esilio dal paradiso terrestre, con tutto ciò che ne consegue: fatica, sofferenza, morte. Ma la ragione umana non si assoggetta facilmente.  Dante stesso aveva, in una fase della sua vita, rifiutato questo limite e  Beatrice lo aveva di ciò ampiamente rimproverato.

Eccoli lì, quegli anziani marinai. Si sono già lasciati alle spalle Siviglia (Sibilia)  e Ceuta (Setta), sulla costa del Marocco. Hanno davanti l’ignoto, stanno sfidando gli dei. E allora Ulisse, astutamente,  previene le loro esitazioni e le loro paure.

(Inferno, canto XXVI, vv. 111-120)

“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.

I suoi marinai sono ormai per lui dei fratelli. E da fratello maggiore li esorta: ormai non rimane molto da vivere, ma in quel breve intervallo in cui godranno ancora dei loro sensi e  avranno la possibilità di percepire la realtà, potranno esplorare per primi quella distesa infinita d’acqua, priva della presenza umana,  che si stende nell’altro emisfero, dove il sole va a tramontare. L’ origine, l’essenza stessa dell’uomo è esercitare la virtù e seguire il desiderio innato di conoscenza. Non come gli animali, che si accontentano della loro vita vegetativa.

(Inferno, canto XXVI, vv. 120- 142)

Li miei compagni fec’ io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,

infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.

Il brevissimo e, per questo tanto più efficace, discorso sprona i suoi compagni al punto che Ulisse non sarebbe forse più stato in grado di trattenerli. I remi diventano ali per quel volo folle, dove folle significa temerario, ma anche contrario al volere divino. Rotta verso sud- ovest. Ormai le costellazioni visibili in cielo sono cambiate: sono quelle dell’ emisfero antartico. Attorno a loro solo acqua e cielo. La luna si è illuminata e spenta cinque volte (sono passati cinque mesi). Finalmente all’orizzonte si profila una montagna (per tradizione il monte del Purgatorio). Ulisse non ne  ha mai vista una più alta. Possiamo immaginare la gioia di quei marinai dopo cinque mesi… Ma subito quella gioia diviene dolore: dalla montagna nasce un turbine che solleva la nave e la fa girare, finché la prua non scende tra le onde e la poppa si alza verso il cielo. Il volere divino si compie e il mare si richiude.
La punizione  è inesorabile, ma come possiamo non sentire, leggendo i versi di Dante, che l’ammirazione supera la condanna? Certo è giusta la punizione divina per la follia e temerarietà di Ulisse, ma quello che tutti ricordano, dopo che la tomba d’acqua si chiude, sono le parole dell’ orazion piccola. Non è un concetto nuovo, lo si ritrova in tanti autori classici, ma nessuno, come Dante, lo aveva mai espresso con tanta potenza . E Dante sa che l’esortazione di Ulisse a seguire virtute e canoscenza  ha guidato tutta la sua vita, la follia di Ulisse sarebbe stata anche la sua  e lo avrebbe trascinato all’Inferno, se Beatrice, link che è allo stesso tempo una donna e la teologia, non lo avesse soccorso. E  chi, dopo sette secoli, non sente intatta quella potenza di queste parole e non desidera, almeno per un attimo, salpare con Ulisse verso l’ignoto?