Il sogno
populista
di Chavez
brucia all’inferno

Chavez fu eletto presidente del Venezuela alla fine del 98 con il 56% dei voti e con un programma tutto teso a migliorare le condizioni di vita della maggioranza povera del paese. In Venezuela il 48% della popolazione viveva sotto la soglia di povertà e un altro 40% appena sopra. A fronte di questa massa c’era un ristretto ceto borghese nel quale si concentrava tutta la ricchezza.
Hugo Chavez ha incarnato, forse più di chiunque altro in America Latina, il prototipo del leader populista, vicino alla gente e ricamiato da una quasi venerazione. Un po’ socialista, un po’ nazionalista, castrista e cattolico, molto istrione, ma anche intelligente e tenace.
Appena eletto indisse un referendum per chiedere ai venezuelani se volevano cambiare la Costituzione, come lui proponeva. L’80% disse sì. E alle elezione per la Costituente prese 120 seggi su 131. Chavez aveva conquistato il popolo.
In 8 mesi fu fatta la nuova Costituzione, confermata poi da un altro referendum. L’attenzione per i diritti umani vi aveva grande spazio. Si passò da una democrazia rappresentativa a una nuova forma chiamata Democrazia Participativa y Protagónica. Con la quale il suo potere personale aumentò. Ma fu anche introdotta la possibilità di un referendum confermativo del presidente, dopo la metà del mandato, salito da 5 a 6 anni. Un istituto che limitava, in senso democratico, il suo potere. Dopo di che nel 2000 fu rieletto presidente.
Nei primi due anni furono stanziati grossi finanziamenti per la ricerca; introdotta l’istruzione gratuita per combattere l’enorme analfabetismo; aumentati del 40% gli stipendi degli insegnanti; creata una banca popolare per scopi sociali, come l’acquisto di una casa; abolito il latifondo; incrementata la sanità pubblica, con assistenza e farmaci gratuiti per il 70% della popolazione; distribuiti generi alimentari a prezzi bassi e anche gratuiti per le persone sottonutrite che erano oltre 4 milioni.
Queste misure produssero risultati importanti, anche il Pil aumentò. Tutto fu possibile attingendo agli introiti petroliferi, che per una fortunata circostanza crebbero molto proprio in quegli anni, grazie al prezzo del petrolio che salì fino a 120 dollari al barile. In questi primi anni il regime chavista fù sostanzialmente democratico.
Nel 2001 gli industriali tentarono di organizzare uno spescie di sciopero antigovernativo, chiudendo le fabbriche, ma fallì. I rapporti con il mondo imprenditoriale si inasprirono. In particolare con la compagnia petrolifera nazionale, che ostacolava l’utilizzo dei lauti profitti petroliferi per piani sociali. Chavez allora sostituì tutti i dirigenti con uomini di sua fiducia, del tutto inesperti però in faccende petrolifere. La qual cosa nel corso degli anni minò l’efficienza dell’azienda e allarmò i petrolieri americani, che in quel momento controllavano la Casa Bianca, con il presidente Bush.

Proteste contro il governo Maduro
Dopo due mesi i militari, con l’appoggio degli Usa, fecero un colpo di Stato. Chavez, per evitare un bagno di sangue, si dimise e si fece arrestatre. Ma il popolo sceso dai ranchos, le bidonville sulle colline di Caracas, circondò le caserme. Più di 6 milioni di venezuelani, in tutto il paese, occuparono strade e piazze. Una parte dell’esercitò si sfilò dal golpe e Chavez fu rimesso al suo posto e concesse l’amnistia a molti golpisti.
Nel 2004 le opposizioni chiesero il referendum per destituirlo, ma Chavez vinse con il 59%. Due anni dopo fu rieletto presidente con il 63%, la regolarità del voto fu certificata da diversi osservatori internazionali.
Visto il nuovo massiccio consenso riscosso, Chavez decise di accentuare la propria politica riformista-populista. Aumentò ulteriormente la spesa pubblica, al di sopra di quanto i pur lauti introiti petroliferi consentissero. Nazionalizzò diverse aziende strategiche. Sostituì buona parte della burocrazia statale, accusata di ostacolare le riforme, con uomini di fede chavista, spesso parenti e amici, dando così il via al formarsi di un regime personale. Accentuò la propaganda rivoluzionaria, innescando una campagna d’odio contro i ricchi e gli avversari, con slogan del tipo: <Va bene rubare ai ricchi perché essere ricchi è una cosa cattiva>. <Bisogna fare la guerra ai nemici della rivoluzione>. Iniziò anche un’azione repressiva nei confronti dell’opposizione, una tv ostile fu chiusa.
Questa politica portò ad una fuga di capitali e di classe dirigente dal paese e al conseguente calo della produzione. Produsse un forte deficit statale (oltre alla spesa interna molti soldi furono spesi per l’amico Fidel, circa 2miliardi all’anno in cambio di alcune migliaia di medici cubani) che Chavez pensò di fronteggiare stampando carta moneta, che ovviamente fece salire l’inflazione, che Chavez cercò di frenare imponendo prezzi bloccati per generi di prima necessità, il che provocò penuria di beni e mercato nero.
La lotta alla corruzione, che era uno degli obiettivi forti della sua propaganda, fu un mezzo fallimento, perchè alla vecchia corruzione si sostituì quella dei suoi fedeli. La tensione nel paese salì e la risposta fu una politica repressiva.

Membri dei Collectivos, le milizie chaviste
Nonostante tutto Chavez fu rieletto nel 2012 per la quarta volta. Ma la situazione precipitò nel 2013, con la sua morte e soprattutto con il crollo del prezzo del petrolio, che da 120 dollari passò a 50. L’economia, che si reggeva ormai solo sul petrolio, collassò, e tutto il sistema, che già scricchiolava pesantemente crollò. Il suo successore Maduro proseguì nelle politiche di imposizione di prezzi politici, di blocco del cambio e di stampa di moneta.
E così la svalutazione del bolivar ha raggiunto l’800%. Al cambio ufficiale 1 dollaro vale 10 bolivar, al cambio nero, quello che vale, per 1 dollaro ti danno un chilo di bolivar. Le importazioni sono calate dell’80% dal 2014 ad oggi. Scarseggia tutto. i prezzi sono aumentati di oltre l’80 per cento in un mese
Lo stipendio minimo oggi è di circa 30 dollari al mese (meno di 10 al tasso del mercato nero). In termini reali è sceso del 75%, negli ultimi 5 anni. La situazione negli ospedali pubblici, che erano un modello in America Latina, è gravissima, mancano medici e farmaci. La gente passa la vita a fare file davanti ai supermercati. Ma quel che si trova ha prezzi impossibili per la popolazione che quindi deve attendere l’arrivo del cibo a prezzo controllato dal governo. Ma le quantità sono ridicole e quindi ogni persona, ogni giorno, in Venezuela deve letteralmente battere la strada alla ricerca di cibo. Caracas, che galleggia su di un mare di petrolio, è rimasta più volte senza luce.
Nel 2014 sono incominciate proteste di piazza che sono diventate vere e proprie sommosse quotidiane dal 2016. Chavez aveva armato gruppi di diseredati dei Barrio, i “collectivos”, per combattere la criminalità, senza alcun risultato, com’era prevedibile. Ma sono state riciclate, soprattutto da Maduro, come milizie paramilitari per attaccare gli oppositori e le manifestazioni di protesta.
Questi gruppi armati, sotto la protezione della polizia, hanno mano libera e, vista la situazione di miseria, quando non debbono assalire i “nemici della rivoluzione”, si dedicano ad attività di delinquenza comune. Il tasso di criminalità a Caracas è salito alle stelle. Rapine, omicidi, sequestri lampo, spesso di bambini, sono ormai completamente fuori controllo. A compierli sono spesso uomini che esibiscono tesserini rilasciati dal governo.
Mentre sui muri campeggiano i murales che ritraggono Chavez con l’aureola assieme a Gesù. Il consenso verso Maduro è crollato. Tanto che alle elezioni per il parlamento, dopo 15 anni hanno vinto le opposizioni. Maduro ha risposto con l’aumento della repressione. Ricorso alla giurisdizione militare per perseguire i civili, arresti indiscriminati, uso della tortura, omicidi e violenze, compresi stupri di stato
E con una specie di colpo di Stato, chiamando il popolo a eleggere una nuova Assemblea costituente, di cui ha ottenuto il controllo grazie ai brogli, e che ha di fatto esautorato il Parlamento. Nonostante la perdita di consensi, Maduro resiste grazie all’oppoggio dei ceti più diseredati e soprattutto a quello dei militari. Che tengono in piedi il governo visto che a loro è stato affidato il controllo di molte attività economiche, compreso il business del petrolio e, grazie alle quali, si arricchiscono.
g.g.