Quale vocazione? Quella dell’insegnante, che nessuno oggi sembra pretendere da chi svolge un mestiere che ha perso sempre più prestigio e centralità sociale. Eppure nessuno può essere un buon insegnante e neanche un insegnante passabile se non ha vocazione all’ascolto, se non è curioso di scoprire la varia umanità che gli alunni fanno normalmente di tutto per non rivelare, se non è disposto a mettersi in gioco ogni giorno, ad adattare lo stile della lezione alla classe, anzi, agli umori della classe che non necessariamente sono gli stessi del giorno prima, a scoprire quali sono le dinamiche che condizionano il gruppo degli studenti, quali sono i leader positivi e negativi  in grado di condizionare implacabilmente  il successo di ogni lezione, per quanto interessante.

E si potrebbe continuare. Dano Turrini, a questo punto tutti lo avranno capito, insegnante in pensione (non ex, perché tutti coloro che hanno insegnato con impegno e passione, restano insegnanti tutta la vita) racconta tutto questo in un libro che descrive il suo percorso nella scuola in una sorta di  dialogo con sé stesso.

Il libro è diviso in brevi capitoli, in ordine cronologico, che raccontano la sua esperienza professionale, ma un po’ anche la sua vita, dalle prime supplenze in una scuola media al lavoro in uno dei più prestigiosi licei cittadini. Ogni capitoletto è una storia a sé, che ha come protagonista un alunno, chiamato con un nome di fantasia. Una microstoria che comincia e finisce in poche pagine, riuscendo a creare una suspence narrativa che tiene incollato il lettore al testo.

Gli alunni protagonisti non sono i più amati, amati come figli e nipoti: quelli sono troppo vicini al cuore per poterli descrivere, ma rappresentano delle tipologie , dei casi clinici, direbbe un medico, che pongono all’insegnante dei problemi, che nessuno gli ha insegnato a risolvere. Anche perché il professore non è un sacerdote, non è uno psicologo, deve aver chiaro qual è il limite della sua azione, anche se, di fronte a situazioni dolorose, è difficile non lasciarsi coinvolgere emotivamente e non vivere  gli insuccessi, inevitabili in ogni professione, come delle sconfitte personali.

Non è il solito libro sulla scuola: l’aneddotica non è fine a sé stessa, anche se i racconti, come si diceva, sono interessanti anche per il lettore comune. Il libro, a suo modo, insegna più di tanti manuali di psicologia e pedagogia e potrebbe essere una guida preziosa per un insegnante che si affaccia alla soglia della professione, proprio perché fa capire bene come sia difficile, ma anche entusiasmante,  un mestiere che va inventato giorno per giorno, in cui si impara ad essere nello stesso tempo clown e poliziotti in servizio di ordine pubblico, un po’ psicologi e un po’sociologi. In cui si impara soprattutto da sé stessi, ma anche dall’esperienza degli altri, soprattutto se, come in questo caso, è raccontata senza retorica, ma allo stesso tempo in modo rigoroso.

Per sua stessa natura il libro rifugge da un discorso complessivo e generale sulla scuola, ma molti spunti ci sono. Emerge per esempio una sconsolata riflessione sugli organi collegiali: assemblee studentesche, consigli di classe, ormai privati del loro senso originario. Così come sulla riluttanza di molti docenti a rendere conto del proprio lavoro, alla scuola e quindi alla comunità, benissimo raccontata nel capitolo in cui si parla della presentazione delle programmazioni.

La scuola va comunque avanti perché ci sono tanti insegnanti, come il protagonista del libro, pronti a mettersi in discussione e a riflettere in modo disincantato sul proprio ruolo, senza le certezze di una vocazione, ma sostanzialmente lasciati soli dalla prima supplenza all’ultimo giorno di lavoro. Non soltanto perché nella scuola non è prevista nessuna struttura stabile di accoglienza e supporto per neo assunti, ma perché gli insegnanti si trovano a dover decidere anche quello che non dovrebbe essere di loro competenza.

Ne è esempio il dialogo tra il protagonista del libro e la collega che sostiene <E poi non siamo più capaci di bocciare… Questo è veramente sbagliato, in primo luogo per quegli stessi ragazzi che arrancano per anni… fino a raggiungere un diploma regalato e inutile>. Questa è una riflessione sul ruolo della scuola, su quello che la comunità richiede ad essa, o, come si dice oggi, sulla sua missione e visione, che manca completamente, nonostante le troppo numerose piccole e grandi riforme.

In mancanza di una visione generale e condivisa sulla missione della scuola, i singoli insegnanti sono di nuovo soli, e, spesso fra mille dubbi,  valutano gli alunni in modo del tutto difforme,  facendo sì che essere promossi o bocciati sia anche questione di fortuna.

Su queste questioni  dovrebbero decidere, magari dopo aver consultato seriamente chi nella scuola ci lavora e la conosce,  le istituzioni e la politica. Queste sì, purtroppo, senza nessuna vocazione ad affrontare i problemi sempre più gravi della formazione delle giovani generazioni.