Nel dialogo in tre libri “De ira”, dedicato al fratello Novato, Seneca spiega la genesi dell’ira e i sui rovinosi effetti. E’ un trattato politico: l’ira di cui parla Seneca è soprattutto quella degli imperatori, ed è probabile che Seneca pensi in particolare al collerico Caligola che, a un carattere iracondo, univa megalomania (voleva essere assimilato a Giove) e vigliaccheria. Naturalmente quando Seneca pubblica il “De ira“ Caligola è già morto e il successore, Claudio, ne aveva espressamente sconfessato la crudeltà. Ma poi Seneca sarà costretto a subire proprio l’ira di Claudio, che lo condannerà all’esilio.

Il libro però ha un significato che può essere esteso alla vita di tutti: ciò che ci allontana maggiormente dalla serenità è cadere in balia delle passioni. E tra le passioni la più devastante è l’ira. Ma abbiamo un mezzo per tenerla sotto controllo, per impedire che, come una bestia feroce, si impadronisca di noi. Se è difficilissimo tenere a bada i nostri sentimenti, più facile è controllare il corpo, cioè le sue manifestazioni fisiche, come sappiamo bene oggi. L’esortazione ” respira, respira” è ormai entrata nella nostra quotidianità, e respirare è diventata una tecnica che moltissimi usano per condizionare la mente.

Quando neanche questo è sufficiente è sperabile che abbiamo intorno amici e familiari che non temano di dirci la verità e di riportarci alla ragione. (Ma forse questo non era facile che accadesse alla corte imperiale…)

 

Combatti con te stesso, se vuoi  vincere l’ira, quella non può vincere (Pugna tecum ipse: si <uis> uincere iram, non potest te illa).
Cominci a vincerla, se resta nascosta, se non  le diamo il permesso di uscire: oscuriamo  i suoi segni e teniamola, per quanto è possibile, nascosta e segreta. Ciò avverrà con grande fatica da parte nostra: desidera infatti balzare fuori ed accendere gli occhi e stravolgere il viso, ma se le è  data la possibilità di uscire, ci sovrasta (supra nos est). Nascondiamola nel profondo del petto, governiamola e non lasciamoci governare ( feraturque, non ferat). Anzi, volgiamo al contrario tutti i suoi indizi: il volto sia spianato, la voce sia più dolce, il passo più lento. Un po’ alla volta l’atteggiamento interiore si conforma a quello esteriore.
In Socrate era segno d’ira abbassare la voce, parlare di meno. Era chiaro, in quel momento, che faceva forza su se stesso: veniva allora scoperto dai suoi amici, che si accorgevano dello sforzo di dominarsi; e gli era gradito che gli rimproverassero perché teneva l’ira nascosta
(exprobratio latitantis irae ). Perché non avrebbe dovuto godere del fatto che molti capivano la sua ira, nessuno la percepiva e l’avrebbero percepita, se non avesse dato agli amici il diritto di rimproverarlo, così come lui, alla sua volta, se l’era preso verso gli amici. Quanto più dobbiamo farlo noi! chiediamo agli amici più stretti, di usare, nei nostri riguardi, libertà di parola, soprattutto quando non saremo in grado di sopportarla, e che non approvino la nostra ira: chiediamo aiuto, finchè siamo padroni di noi stessi, contro un male potente e che accettiamo (però) di buon grado. Quelli che sopportano male il vino e temono di parlare in modo sconsiderato ed arrogante quando sono ubriachi (ebrietatis suae temeritatem ac petulantiam metuunt), danno incarico agli amici di portarli via dal banchetto e avendo sperimentato la propria incapacità di controllarsi, vietano che si obbedisca loro quando si trovano in una situazione di infermità mentale (in aduersa ualetudine).

 

Testo latino

  1. 1. Pugna tecum ipse: si <uis> uincere iram, non potest te illa. Incipis uincere, si absconditur, si illi exitus non datur. Signa eius obruamus et illam quantum fieri potest occultam secretamque teneamus. 2. Cum magna id nostra molestia fiet (cupit enim exilire et incendere oculos et mutare faciem), sed si eminere illi extra nos licuit, supra nos est. In imo pectoris secessu recondatur, feraturque, non ferat. Immo in contrarium omnia eius indicia flectamus: uultus remittatur, uox lenior sit, gradus lentior; paulatim cum exterioribus interiora formantur. 3. In Socrate irae signum erat uocem summittere, loqui parcius; apparebat tunc illum sibi obstare. Deprendebatur itaque a familiaribus et coarguebatur, nec erat illi exprobratio latitantis irae Quidni gauderet quod iram suam multi intellegerent, nemo sentiret? Sensissent autem, nisi ius amicis obiurgandi se dedisset, sicut ipse sibi in amicos sumpserat. 4. Quanto magis hoc nobis faciendum est! Rogemus amicissimum quemque ut tunc maxime libertate aduersus nos utatur cum minime illam pati poterimus, nec adsentiatur irae nostrae; contra [nos] potens malum et apud nos gratiosum, dum consipimus, dum nostri sumus, aduocemus. 5. Qui uinum male ferunt et ebrietatis suae temeritatem ac petulantiam metuunt, mandant suis ut e conuiuio auferantur; intemperantiam in morbo suam experti parere ipsis in aduersa ualetudine uetant. ..