Siamo nel XIII canto, nel settimo cerchio dell’Inferno, quello dei suicidi,  in un bosco ancora più spaventoso della selva oscura. I rami degli alberi e dei cespugli del sottobosco sono contorti, senza foglie, di colore fosco, pieni di spine velenose. Invece degli uccelli svolazzano per il bosco le orrende Arpie (già descritte da Virgilio  nell’Eneide),  mostri dal volto di donna, ventre pennuto, piedi artigliati, ampie ali, un mostruoso incrocio tra bestiale ed umano. Emettono suoni orribili che si mescolano a strazianti lamenti. Ma intorno non si vede nessuno. Forse i dannati si nascondono in mezzo alla vegetazione? Virgilio suggerisce a Dante di spezzare un rametto di un albero.

(Inferno, XIII, 31-39)

Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ‘l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’ esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».

L’albero scelto da Dante, maestoso, un gran pruno, grida per il dolore, comincia a sanguinare, lo rimprovera di non avere nessuna pietà: anche se fossero anime di serpenti non sarebbe giusto trattarle così.  E’ Virgilio, il vero responsabile, a scusarsi: se non gli avesse chiesto di strappare il rametto, Dante non avrebbe mai potuto credere che quegli alberi sono in realtà dannati trasformati in piante. E’ vero che anche nell’Eneide l’episodio di Polidoro rappresenta un caso di vegetalizzazione dell’umano, ma un conto è la letteratura e un altro la realtà. Dante non deve avere dubbi su ciò che gli viene mostrato durante il viaggio: non è lì in viaggio di piacere, ma per testimoniare qual è lo stato delle anime dopo la morte, affinchè i lettori della sua opera ne traggano insegnamenti.

Come parziale risarcimento per la ferita inferta,  Virgilio suggerisce a Dante di chiedere all’anima-albero chi sia, per poter rinfrescare la sua fama nel mondo.

E l’anima risponde

(Inferno, XIII, 58-78)

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ‘ polsi.

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,

infiammò contra me li animi tutti;
e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,
che ‘ lieti onor tornaro in tristi lutti.

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ‘nvidia le diede».

E’ uno dei canti in cui maggiormente le parole sono scelte per riprodurre dei suoni.  L’anima parla sibilando, usando parole che contengono la “s”: poco prima Dante ci ha detto che la voce esce dal tronco facendo lo stesso suono dell’aria che esce da un ramo  bruciato quando è ancora verde. Ma è anche uno stile elevato, pieno di figure retoriche, adatto ad un personaggio di grande cultura. L’anima che si è fatta tronco è  infatti quella di Pier delle Vigne, valente giurista e letterato che si era formato all’università di Bologna. Chiamato alla corte di Federico II di Svevia, ne divenne il più stimato consigliere, tanto da tenere ambo le chiavi, cioè quella del volere e del non volere, dell’amore e dell’odio del suo cuore.

Ma come avrebbero potuto gli altri cortigiani tollerare a lungo questa esclusiva intimità? I luoghi del potere sono  quelli nel quale maggiormente alberga l’invidia, la meretrice dagli occhi di puttana, ed eccoli lì, i cortigiani, infiammati dal fuoco dell’invidia adoperarsi per infiammare con calunnie e sospetti l’imperatore. E l’operazione riesce: Federico si convince del tradimento di Piero, lo imprigiona e lo fa accecare. Piero che aveva consumato le forze e perduto il sonno al servizio del suo signore, non può accettare questa suprema ingiustizia e ritorce lo sdegno contro se stesso e si uccide, spaccandosi la testa contro un muro. Giura sulle sue radici (su cosa ormai potrebbe giurare un albero!) che la sua fedeltà non è mai venuta meno. Se Dante ritornerà nel mondo dovrà riabilitare il suo nome, ancora oscurato dal colpo inferto dall’invidia.

Il contrappasso è chiaro: chi si priva volontariamente del corpo non potrà riaverlo dopo la morte. Piero, poi, su richiesta di Dante, precisa che quando ci sarà il giudizio universale anche i suicidi torneranno sulla terra per riprendere il proprio corpo, per poi, una volta tornati all’ Inferno, appenderlo  all’albero in cui  la loro anima è  imprigionata. L’immagine di un bosco oscuro popolato di corpi appesi agli alberi è potentissima.

Ma il vero tema del canto è quello del potere, mai disgiunto da sofferenze e pericoli, indipendentemente dalla rettitudine di chi lo gestisce. Dante stesso ne è un esempio: passano pochi mesi da quando ottiene la massima magistratura fiorentina, il priorato, al momento dell’esilio.  E anche Dante, come Pier Delle Vigne, è una vittima del potere acquisito, accusato di crimini vergognosi nonostante si sia comportato con onestà e lealtà nei confronti della sua città. Qualche secolo dopo, per citare solo un altro esempio, anche Thomas Cromwell, protagonista della grande trilogia della scrittrice inglese Hillary Mantel, subirà la stessa sorte.