Per quale motivo Marco Carrera, oftalmologo, protagonista del romanzo, é un colibrì? Per due motivi: da bambino era piccolissimo, un uccellino appunto, che solo una cura sperimentale ha trasformato in un adulto di altezza un po’ superiore alla media e, come il colibrì, ha come massima aspirazione quella di rimanere fermo agitando le ali.
Tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei. E però, la tendenza al cambiamento, anche quando è probabile che non porti nulla di meglio, fa parte dell’istinto umano, e tu non la concepisci.”

Ma sono le persone che gli stanno più vicino, volontariamente o meno, a impedirgli di rimanere fermo, ad imporgli una serie di dolorosi cambiamenti che lo costringono ad adattarsi e a rimettere continuamente in discussione priorità e valori, per raggiungere sempre nuovi equilibri, a loro volta instabili.

Il tema fondamentale del romanzo sia l’impermanenza, la continua transitorierà dei fenomeni: tutto scorre, muta, niente è eterno. La permanenza è un’illusione, e l’accettazione di questa verità – o meglio, vivere nella consapevolezza di questo fluire – dovrebbe portare ad una maggiore serenità nell’accettare il cambiamento che nella vita è inevitabile. E’ un concetto filosofico importantissimo, legato soprattutto alle filosofie orientali, in particolare al buddismo. Ma anche la filosofia occidentale, a partire di Eraclito, ha teorizzato più volte la teoria del divenire.

Purtroppo, però, tra la consapevolezza razionale dell’inesorabile divenire e la serenità nell’accettarlo ci sono i nostri sentimenti, l’attaccamento alle persone che ci sono intorno, il dolore per la loro perdita e per quella di parti della nostra vita che se ne vanno con loro, che il ragionamento filosofico non può placare.

Afferma Marco Carrera, il protagonista del romanzo: “ Di cambiamenti ce ne sono stati anche nella mia vita, lo sai: spallate terribili che mi hanno spostato da dove intendevo rimanere, e che mi hanno lasciato con un filo di forza. (…) , e ognuno dei cambiamenti che ho subito ha prodotto un urto tremendo, che mi ha spostato di peso, sbattendomi letteralmente in un’altra vita, e poi in un’altra, e poi in un’altra, vite alle quali ho dovuto adattarmi brutalmente, senza mediazioni. Capisci che io provi sollievo a trattenere quante più cose possibile?

Marco si è dovuto adattare brutalmente al cambiamento. Figlio di genitori borghesi, che si sopportano pur essendo del tutto incompatibili e che trasmettono ai figli la loro infelicità, ingannato ripetutatamente dalla moglie, destinato ad essere abbandonato dalle persone che ama di più, a cui ha dedicato la propria vita.

E’ riuscito però a praticare una resilienza tenace, che si fonda anche su una sorta di ricerca del tempo perduto, nel tentativo di risalirlo, soprattutto attraverso gli oggetti che sono appartenuti alla sua famiglia e che gli consentono una comprensione più profonda delle persone che gli sono state accanto.

Il romanzo si sofferma su minuziose descrizioni di oggetti: la collezione dei romanzi di “Urania” appartenuta al padre, gli oggetti di design anni Sessanta e Settanta, molti dei quali esposti al Moma di New York, con i quali tante famiglie appartenenti alla borghesia intellettuale hanno creato un proprio stile ancor oggi riconoscibile, i plastici realizzati dal padre ingegnere, la collezione dei manga della figlia. Gli oggetti non tradiscono e non abbandonano e sfuggono quindi alla leggi dell’impermanenza e vanno recuperati, anche ad un prezzo altissimo, come accade per l’archivio fotografico della madre, in un primo momento incautamente regalato.

Attaccarsi alle cose per sopravvivere ai lutti. Lo stesso Veronesi spiega il significato del suo romanzo: se Pietro Paladini, protagonista del suo libro di maggior successo, Caos calmo, decide di congelare la propria vita in seguito alla morte improvvisa della moglie, di rifugiarsi in una “bolla”, trascorrendo tutte le sue giornate su una panchina davanti alla scuola della figlia, Marco Carrera affronta le sofferenze che la vita gli infligge.

Nel mio nuovo romanzo si fa tutt’altro: si va dentro il dolore per combatterla, la dittatura del lutto e del dolore. Perché certo non c’è infingimento possibile per eluderlihttps://ilbolive.unipd.it/it/news/colibri-intervista-sandro-veronesi

E la battaglia suprema contro la dittatura del lutto e del dolore viene vinta grazie alla piccolissima nipote , una bambina, Miraijin, il cui nome significa , in giapponese, l’uomo nuovo . Una bambina prodigiosa, che non può non richiamare alla mente del lettore, per certi aspetti, Greta Thunberg . Quasi una profezia!

Ma questo è forse l’aspetto meno convincente del romanzo. Purtroppo sappiamo bene che non sempre la vita offre, come a Marco, compensazioni così potenti al lutto e al dolore. Spesso il livello su cui deve essere impostata la linea di resilienza è molto più basso e richiede, quindi, molto più coraggio. Anche se forse è giusto, nei romanzi, offrire al lettore una prospettiva non del tutto negativa e parzialmente consolatoria.

Anche alcuni personaggi, risultano un po’ stereotipati e non del tutto convincenti : i genitori di Marco, per esempio, intellettuali, borghesi, infelici, anticonformisti rispecchiano un po’ clichè già visti.

La narrazione scorre veloce, alternando episodi drammatici e (pochi) più leggeri e comici e sfruttando, come accade in tanti romanzi contemporanei, diverse tipologie di racconto: un narratore esterno, lettere che i protagonisti si scambiano, mail. Anche la vicenda non è narrata seguendo la sequenza temporale degli eventi, che vengono anticipati e poi spiegati nel corso della narrazione, ma anche questo non è una novità (a dire il vero non lo è dal 1923, anno in cui Svevo pubblica La coscienza di Zeno)

 

Sandro Veronesi è uno degli scrittori taliani più noti ed apprezzati Collabora con diverse riviste, quotidiani, radio, Rai . Ha vinto con i suoi romanzi numerosi premi letterari, ma il suo libro più famoso è sicuramente Caos Calmo, vincitore del premio Strega del 2006, da cui è stato tratto l’omonimo film del 2008, diretto da Antonello Grimaldi e interpretato da Nanni Moretti.