Emotivamente travolta, anni fa, dalla lettura di Una vita come tante di Hanya Yanagihara, mi sono avventata sul nuovo romanzo della scrittrice statunitense di origini hawaiane, Verso il Paradiso, appena Feltrinelli lo ha pubblicato nella bella traduzione italiana di Francesco Pacifico.
E’ un romanzo di settecento pagine, difficile da descrivere tanti sono i temi che affronta. Anzi non si può parlare di un romanzo, ma di una serie di storie (suddivise in tre libri) che hanno come filo conduttore una lussuosa residenza in Washington Square Park, New York, a cui, in qualche modo, sono legati tutti i personaggi che si alternano nella narrazione, che si estende in un arco di due secoli.
E’ un filo che emerge e si inabissa, così come quello che lega i diversi personaggi che hanno, in epoche diverse, lo stesso nome: David o lo stesso cognome Bingham. Al lettore non resta che accettare che non si tratta della tradizionale narrazione della storia di una famiglia. Alcuni segmenti restano volutamente oscuri, anche quando l’autrice illude il lettore di voler completare il puzzle.
Il primo libro (Washington Square) è ambientato in un’ utopica New York del 1893, appartenente agli Stati liberi (che si sono staccati dagli Stati Uniti) dove è stata instaurata una totale parità tra uomo e donna e dove gli omosessuali possono sposarsi e avere figli. David Bingham, il protagonista, vive nel palazzo di Washington Square assieme al nonno da cui è stato cresciuto amorevolmente dopo la morte dei genitori. I Bingham sono ricchissimi banchieri e filantropi, appartenenti all’ élite più ristretta della città. Per David la vita dovrebbe essere una passeggiata, ma un malessere profondo gli impedisce di trovare una sua strada, fino a trascinarlo alla probabile rovina.
Sempre nella stessa casa abita, negli anni novanta del XXI secolo, Charlie, una discendente della famiglia Bingham, anche lei orfana e cresciuta amorevolmente dal nonno (ma ricostruirne l’albero genealogico è impossibile). La città è stata divisa in zone separate e Washington Square appartiene alla zona 8 (che dà il titolo al terzo libro). L’utopia del passato si è trasformata in una angosciosa distopia: sulla città si sono abbattute gravissime pandemie, il riscaldamento globale rende impossibile restare all’aperto senza tute refrigeranti, l’acqua va centellinata, alberi e piante ornamentali sono spariti, il cibo è razionato e ridotto all’essenziale (nutrie come principale fonte proteica!).
Una dittatura tecnocratica governa gli stati liberi, contestata violentemente da gruppi di ribelli che ne disapprovano le scelte, soprattutto quelle legate alla politica sanitaria. La popolazione non ha accesso a nessun genere di informazione, se non quelle di servizio diffuse dalla radio. Internet non tornerà mai più. Non si può viaggiare. Chi sgarra finisce sulla lista nera e trascina con sé tutta la famiglia. Charlie Bingham è sopravvissuta all’ultima epidemia grazie ad un farmaco che ne ha però gravemente compromesso l’aspetto fisico e lo sviluppo mentale. Ma il nonno Charles, che l’ha cresciuta, afferma. “ Forse quella sua impassibilità è una sorta di stolidità, che le verrà utile qualunque cosa ne sarà del mondo. Forse le sue qualità, la cui scomparsa ho pianto per lei – complessità emotiva, apertura ai sentimenti, perfino lo spirito ribelle – sono qualità la cui scomparsa dovrebbe darmi sollievo. Nei momenti di maggiore ottimismo riesco quasi a immaginarmi che la sua sia un’evoluzione, per diventare il tipo di persona più equipaggiato per il nostro tempo e il nostro paese.”
Un altro David Bingham è il protagonista di Lipo-wao-nahele, il secondo libro. Anche lui vive nella lussuosa abitazione di Whashington Square, che appartiene al suo amante Charles, ricco socio di uno studio legale. Siamo nei primi anni novanta del Novecento, la comunità gay a cui appartengono David e Charles è devastata dall’AIDS, quasi un’anticipazione delle pandemie del secolo successivo. Nel sangue di David si mescolano il sangue dei Bingham e quello havaiano. E la storia della famiglia di David introduce un altro tema: quello dei nativi havaiani la cui cultura è stata schiacciata dall’assimilazione forzata avvenuta dopo l’ annessione agli Stati uniti. Anche questo David è cresciuto senza la madre e con un padre incapace di adattarsi alla realtà.
Solo scrivendo questa recensione e cercando, con scarsi risultati, di chiarire in primo luogo a me stessa il significato di una narrazione torrenziale, a tratti estremamente coinvolgente, a tratti spiazzante, con una miriade di storie che si intrecciano e di temi che si sovrappongono, mi sono resa conto che, in fondo, il romanzo ripropone con la stessa potenza emotiva il dolore insanabile del protagonista di Una vita come tante.
E’ come se la sofferenza esistenziale di Jude , orfano, abusato, incapace di superare la sua terribile infanzia nonostante la stupefacente carriera, si riflettesse, come in un prisma, nei tanti giovani protagonisti di Verso il paradiso. Con la stessa intensità espressiva e la stessa capacità di commuovere. E forse per questo non ha importanza che le storie rimangano aperte, deludendo a volte le aspettative del lettore. Il vero fine della scrittrice non è raccontare trame familiari o trattare temi storico sociali, ma raccontare il dolore, ma anche l’amore che cerca di placarlo, a volte senza riuscirci. E fare vivere questi sentimenti al lettore.
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